8. La sconfitta piemontese e la fine della guerra
Domande
Descrizione e Analisi
Mentre Venezia resiste all’assedio austriaco e a Roma si è costituita la repubblica, all’interno del governo piemontese, presieduto dal cattolico liberale Vincenzo Gioberti, matura la decisione, condivisa dal re Carlo Alberto, di riprendere la guerra con l’Austria. L’idea è di riconquistare i territori lombardi e di ricongiungersi alle città “liberate”, togliendo alle forze democratiche l’iniziativa della guerra nazionale. La situazione militare però è cambiata rispetto a un anno prima: il Piemonte non può più contare sull’apporto di volontari né di truppe alleate, l’esercito è ridotto a circa 100.000 uomini, in gran parte giovani reclute, il comando dell’esercito è affidato a un generale polacco, estraneo ai costumi piemontesi e senza alcuna esperienza del territorio italiano. Il piano militare prevede, al solito, il passaggio del Ticino per marciare su Milano, prendendo gli austriaci alle spalle; mentre il generale Ramorino deve difendere Pavia e tenere a bada gli austriaci. Ramorino, però, non si attiene agli ordini ricevuti, consentendo agli austriaci di oltrepassare il Ticino a Pavia e di entrare in Piemonte il 20 marzo 1849. Il giorno dopo Ramorino viene destituito, processato e condannato a morte per disubbidienza. Ora è il Piemonte a rischiare di essere occupato dalle truppe austriache, che effettivamente, occupano Novara. In cinque giorni di guerra la disfatta è totale: l’immagine rovesciata delle cinque gloriose giornate di Milano. Di fronte alle durissime condizioni poste dagli austriaci, Carlo Alberto, che forse già da tempo meditava di rinunciare al trono, annuncia la decisione di abdicare in favore del giovane figlio Vittorio Emanuele, al quale spetta di trattare la pace. L’armistizio prevede l’occupazione militare austriaca, fino alla sigla del trattato di pace, di una vasta zona del Piemonte; il ritiro delle truppe piemontesi dalla Toscana, dove a Firenze si era formato un governo liberale, e della flotta dall’Adriatico, dove resisteva l’altro pericoloso focolaio repubblicano a Venezia; un’indennità di guerra molto pesante, 75 milioni di lire. Le pesanti condizioni di pace, anche se in seguito ammorbidire dalle trattative diplomatiche, non sono però accettate senza manifestazioni di dissenso: a Genova la folla, guidata da alcuni studenti universitari, occupa il palazzo ducale, Brescia si ribella all’esito della guerra e resiste per ben dieci giorni all’entrata degli austriaci. La forza degli ideali nazionali e dei sentimenti di indipendenza e di autodeterminazione degli italiani sembrano andare oltre le sconfitte militari e la volontà dei governi. Nel pesante clima di restaurazione austriaca, successivo alla fine della I guerra d’Indipendenza, le speranze popolari che hanno nutrito il sogno del ’48 non si spengono di fronte ai processi, alle epurazioni, alle fucilazioni, alle divisioni politiche tra gli schieramenti.
Fin dal 1847 le manifestazioni pubbliche, le feste politiche, i riti collettivi diventano una delle pratiche più diffuse e più importanti del processo rivoluzionario. Gli elementi simbolici del discorso nazionale sono alimentati dalla letteratura romantica dei decenni precedenti ma forse ancora di più da una vera e propria epopea musicale, popolare e d’autore. Il melodramma accompagna la stagione rivoluzionaria, funge da elemento di coesione e di propaganda patriottica. Così come nella produzione letteraria, il romanzo storico aveva scelto eroi del passato per parlare del presente, anche nel melodramma vengono messi in scena drammi ambientati nel lontano medioevo con forti richiami simbolici alla situazione attuale. Un testo esemplare è la Battaglia di Legnano composta da Giuseppe Verdi, messa in scena con grandissimo successo al teatro alla Scala di Milano il 22 gennaio (quindi dopo il ritorno del governo austriaco) e a Roma durante l’esperienza repubblicana:
LA BATTAGLIA DI LEGNANO, ’49, di Giuseppe Verdi su libretto di M. Piave
(Tutti giuriam difenderla)
“Giuriam
Domandan vendetta gli altari spoliati,
Le donne, i fanciulli dall’empio svenati.
Sull’Istro nativo cacciam queste fiere,
Sian libere e nostre le nostre città.
Giuriam”
La fine della guerra e la “restaurazione” austriaca nel Lombardo-Veneto
La situazione evolve però in poco tempo in senso contrario alle attese dei patrioti. Il papa Pio IX ritira inaspettatamente le sue truppe, nel timore di una rottura con la cattolica Austria, e così pure farà subito dopo il re Ferdinando di Borbone; gli obiettivi da parte di Carlo Alberto di annessione delle zone del Lombardo-Veneto e degli ex-Ducati insorte si fanno sempre più palesi con la promulgazione di plebisciti, che decretano a larghissima maggioranza la volontà popolare di “annettersi” al Piemonte. L’andamento della guerra contro l’Austria, dopo le iniziali vittorie piemontesi, soprattutto per merito dei corpi di volontari, si fa incerto, permettendo così agli austriaci di riorganizzare le truppe e di sferrare una violenta controffensiva, battendo a Custoza le truppe piemontesi. Dopo essersi ritirato a Milano, il re Carlo Alberto decide di non difendere la città ad oltranza e di ritirarsi nei confini del proprio stato. Di lì a poco viene firmato l’armistizio con l’Austria: la Lombardia è nuovamente in mano straniera. Anche la seconda fase della guerra, che riprende l’anno dopo, soprattutto per volontà del Parlamento di Torino, sarà negativa per l’esercito piemontese (sconfitta di Novara), tanto da costringere Carlo Alberto ad abdicare in favore di Vittorio Emanuele II e di ritirasi in esilio in Portogallo. La pace di Milano pone fine alla guerra, lasciando sostanzialmente immutata la situazione geopolitica italiana e chiudendo la prima fase del processo di unificazione nazionale, quella più fortemente ispirata agli ideali liberal-democratici dominati dall’iniziativa popolare.