5. Daniele Manin proclama la Repubblica di Venezia
Domande
Descrizione e Analisi
Venezia è la prima città importante dei territori dell’Impero asburgico a ribellarsi: il 17 marzo un’imponente manifestazione patriottica costringe il governatore Palffy a liberare alcuni patrioti incarcerati nel gennaio precedente, tra cui spiccano due figure di grande rilievo culturale e politico, Daniele Manin e Niccolò Tommaseo. Avvocato e brillante oratore, discendente da una famiglia veronese di origini ebraiche (il nonno paterno, Samuele Medina, convertendosi al cattolicesimo aveva adottato il nome del suo padrino di battesimo, il patrizio e futuro doge Ludovico Manin), Daniele diverrà dapprima capo del governo provvisorio veneziano, poi “triumviro” e infine “dittatore” della Repubblica, quando gli saranno conferiti poteri illimitati per organizzare la resistenza ad oltranza contro gli austriaci. Il secondo, di origini dalmate, diviene famoso per la sua raffinata cultura linguistica e poi come scrittore e animatore dei circoli politici e letterari veneziani. Tra i due non mancheranno i contrasti e i dissapori soprattutto quando, in nome della concordia civica giudicata necessaria per la difesa della città, Manin farà espellere da Venezia tre mazziniani e poi altri esponenti democratici radicali, accusati di fomentare odio e di sostenere posizioni troppo critiche nei confronti della “dittatura”.Una volta liberati, Manin e Tommaseo guidano l’insurrezione quasi del tutto incruenta del 22 marzo, che conduce alla liberazione della città e alla proclamazione della repubblica affidata alla loro guida: in essa si mescolano aspirazioni “nazionali” filo-italiane, ma anche ricordi e nostalgie dell’antica tradizione repubblicana della città, il cui simbolo, il Leone di S. Marco, sventola in piazza insieme al tricolore. L’avvocato Manin, nel pomeriggio dello stesso giorno, in piedi su un tavolino di un caffè, parla ai veneziani che affollano piazza San Marco: “Noi siamo liberi” dice “e possiamo doppiamente gloriarci di esserlo, giacché lo siamo senza aver versato una goccia né del nostro sangue né di quello dei nostri fratelli, perché io considero come tali tutti gli uomini. Ma non basta aver abbattuto l’antico governo, bisogna altresì costruirne uno nuovo, e il più adatto ci sembra quello della repubblica, che rammenti le glorie passate, migliorato dalle libertà presenti. Con questo non intendiamo già di separarci dai nostri fratelli italiani, ma anzi formeremo uno de’ quei centri, che dovranno servire alla fusione successiva di questa Italia in un sol tutto. Viva dunque la Repubblica! Viva San Marco!”. Il discorso in realtà conteneva una piccola falsità, perché almeno il sangue di un uomo era stato versato. Quella mattina, infatti, i lavoratori dell’Arsenale avevano ucciso il loro Direttore, Giovanni Marinovich. Manin, avvertito dei disordini, era andato all’Arsenale accompagnato dalla Guardia civica e lo aveva occupato. Di lì a poco era arrivato l’esercito ma i soldati italiani si erano ammutinati agli ufficiali austriaci e non avevano sparato. Ai rappresentanti del governo di Vienna non resta ormai che trattare la resa con la Municipalità. (domande 1 -2 -3)
Nei sedici mesi di governo, Manin persegue un duplice intento politico: all’interno, la progressiva costruzione di una democrazia repubblicana fondata sull’uguaglianza civile, sulle libertà politiche e sul suffragio universale; all’esterno, l’indipendenza e l’unione federale italiana attraverso un’Assemblea costituente da riunirsi a Roma. Per questo motivo, quando si tratta di accettare la proposta di Carlo Alberto, di annessione al Regno di Sardegna, Manin rimanda la decisione e temporeggia, fino a che il 3 luglio, quando ormai gli austriaci hanno riconquistato buona parte delle città perdute, si decide ad accettare la fusione col regno sabaudo. Ciò gli costa la rinuncia a partecipare alla vita politica per almeno un mese, fino a che i veneziani, dopo l’armistizio tra Piemonte e Impero, non si sollevano nuovamente temendo che la città venisse nuovamente riconsegnata agli austriaci. Nel perseguire questa politica fermamente repubblicana, Manin riceve il costante sostegno, oltre che degli “uomini d’affari” che compongono il governo, anche degli esponenti delle professioni “liberali”, degli intellettuali e degli studenti. La sua figura diviene una vera e propria icona tra le classi popolari: gli artigiani, i barcaioli e gli operai veneziani lo percepiscono, complice anche il cognome, come l’ultimo doge e il “bon pare”, manifestandogli un’autentica venerazione, contraccambiata da una famigliarità di dialogo in dialetto e, in concreto, da provvedimenti come il contenimento dei prezzi delle derrate alimentari o il reclutamento dei disoccupati per i lavori di rafforzamento delle difese cittadine. Ciò spiega la lunga durata della Repubblica di San Marco e la grande partecipazione “popolare” all’esperienza repubblicana anche quando il governo della città, assediata, ha bisogno di monete per comprare le provviste e chiede ai cittadini di consegnare alla zecca, entro quarant’otto ore, tutto l’oro e l’argento che possiedono. Per soccorrere Venezia, l’unica città che resiste dopo la sconfitta patita dai piemontesi nella prima fase della guerra, viene addirittura lanciato un prestito di dieci milioni in tutta Italia; il prestito è garantito da un’ipoteca su Palazzo Ducale. Il 13 agosto Manin costituisce un Triunvirato che a dicembre indice le elezioni a suffragio universale maschile per la costituzione di un’assemblea permanente dei rappresentanti dello stato di Venezia, che va a sostituirsi a quella che era stata eletta nel giugno del 1848 per decidere dell’unione col Piemonte e con le altre terre liberate. Le elezioni vedono una notevole affluenza di elettori e danno come risultato una maggioranza favorevole a Manin, che il 7 marzo del 1849 costituisce un nuovo governo, di cui egli è ministro degli Esteri. Dopo la sconfitta definitiva dei piemontesi nella seconda fase della I guerra d’Indipendenza, il comandante dell’esercito austriaco in Veneto invita Manin ad accordarsi per la resa della città. Da allora, e fino all’agosto successivo, la città resiste, difesa con grande tenacia da molti volontari accorsi da varie parti d’Italia, oltre che da un notevole numero di veneti della Terraferma, che si sottraggono alla leva dell’esercito austriaco. A nulla vale la stipula di un’alleanza col Governo rivoluzionario ungherese nella speranza che gli ungheresi possano battere gli austriaci e addirittura riuscire a soccorrere Venezia assediata: la città è ormai circondata, senza più risorse alimentari ed è anche vittima della diffusione di un’epidemia di colera. Il 22 agosto i delegati del Governo veneziano firmano la capitolazione, approvata due giorni dopo dal Governo stesso. A Manin e ad altri leader della resistenza veneziana è data la possibilità di allontanarsi da Venezia a bordo di una nave francese che li conduce verso l’esilio, mentre gli austriaci entrano in città. Manin lascia per sempre Venezia il 28 agosto 1849 dirigendosi verso Parigi, dove verrà accolto come un eroe da molti intellettuali francesi (tra cui Victor Hugo) e dove, come altri patrioti italiani, avrà la possibilità di impegnarsi concretamente per la causa nazionale. Venezia è l’ultima parte d’Italia a capitolare, con la sua fine muoiono tutti gli ideali che avevano alimentato la grande sollevazione italiana del biennio rivoluzionario: il bilancio è apparentemente negativo per la causa nazionale e per l’acquisizione definitiva dei diritti costituzionali, che solo il governo piemontese ha mantenuto. (domanda 4)
Altre informazioni
Così scrive Cristina Trivulzio di Belgioioso, narratrice degli avvenimenti italiani del ’48, tracciando un bilancio della resistenza veneziana:
“Abbiamo commesso degli errori, perché negarlo, dal momento che le nostre attuali sventure vengono da lì e ne sono l’inequivocabile testimonianza? Ma il comportamento di Venezia ci risarcisce di molte umiliazioni, e tra tante amarezze ci ricorderemo che la gloria veneziana ci ha dato qualche conforto. L’Europa, persino l’Italia, sembra aver dimenticato Venezia e non preoccuparsi più di questa città sperduta tra i mari. Era considerata incapace tanto di riconquistare quanto di conservare la propria indipendenza. Oggi Venezia smentisce solennemente queste accuse ingiuste. L’Europa le ha ridato la sua simpatia e l’onore italiano vi trova il suo ultimo baluardo. Verrà il giorno, spariamo, in cui la riparazione sarà ancora più completa. Quel giorno, l’Italia avrà conquistato la sua indipendenza e Venezia sarà celebrata, tra tutte le libere città italiane, come quella che mai perse la fede nella patria e mai esitò a sacrificarsi per la santa causa del nostro riscatto.” (Cristina Trivulzio di Belgioioso, Capi e popolo. Il Quarantotto a Venezia, edizioni Spartaco, 2005).
Sulla rivoluzione veneziana del 1848-’49 è disponibile il saggio di Piero Brunello sul sito dell’Università di Venezia http://www.unive.it/media/allegatieventi/stu_storici/1848_E_D.pdf
Il saggio di P. Ginsborg del 1974 su “Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-‘49” è disponibile in lingua inglese (Peasants and revolutionaries in Venice and Veneto – 1848) in http://www.jstor.org/stable/2638387
Il Piemonte dichiara guerra all’Austria
Il 23 marzo finalmente il re Carlo Alberto decide di intervenire nel Lombardo-Veneto con una dichiarazione di guerra all’Austria: ha inizio la I guerra d’Indipendenza italiana. Tre giorni più tardi le truppe piemontesi arrivano a Milano. Quasi tutti i sovrani degli stati italiani, tra cui anche il Papa, decidono a questo punto, per motivi di convenienza e di calcolo politico, di mandare propri corpi militari in aiuto all’esercito dei Savoia. Altri corpi di volontari si formano in questi giorni e partono da Milano e da altre città padane per congiungersi con l’esercito regolare sardo. Il clima è favorevole allo spirito unitario, persino Mazzini, arrivato a Milano il 7 aprile, sembra rinunciare al suo progetto repubblicano per cooperare all’iniziativa di Carlo Alberto, in nome del raggiungimento dell’indipendenza italiana. Posizione questa non condivisa dai leader politici democratici, quali Cattaneo e Ferrari, che si oppongono in modo intransigente a ogni collaborazione con i sovrani e a progetti di unificazione monarchica.